Perché stare alla larga dalle content factory

Chi si occupa di creazione di contenuti in Rete prima o poi ci si imbatte. Nella casella arriva un’email da qualche strana azienda, di solito straniera; il testo è scritto in un italiano stentato e la richiesta è sempre la stessa: creare una marea di testi, lunghi di solito dalle 400 alle 1.000 parole, per un compenso irrisorio e a una scadenza strettissima. Lo scopo? Mettere in piedi qualche sito commerciale o qualche sito civetta da sfruttare a fini promozionali.

La stessa email è spedita a molti altri professionisti. Il mittente è un “contenutificio” (in inglese content factory, oppure anche content mill o content farm). Sulle prime si può pensare che sia un modo tutto sommato lecito per far fruttare la propria attività commerciale. Ma, a ben vedere, la richiesta che fanno queste “fabbriche di testi”, oltre a essere offensiva e degradante per il lavoro di tanti bravi copywriter, è anche controproducente dal punto di vista della SEO.

Che cos’è una content factory?

Si tratta di un’azienda che crea contenuti soltanto per piazzare un sito nelle prime posizioni sui motori di ricerca. Per far questo, si contattano decine e decine di freelance a cui viene assegnata la redazione di articoli o contenuti testuali in genere.

Perché a Google non piacciono le content factory

Google non vede di buon occhio queste operazioni, perché producono testi mal fatti sotto ogni aspetto, ma soprattutto perché sono contenuti studiati apposta per attrarre grandi masse di utenti, senza alcuna selezione.
Sì, perché i contenutifici non mirano a fornire informazioni, ma a dirottare quanta più gente possibile sulle pagine in cui sono stati caricati annunci pubblicitari. È un modo per ingannare Google, facendo leva sulla sua preferenza per i contenuti originali.
Solo che dal 2011, cioè dalla modifica all’algoritmo di Google che colpisce le content farm, l’originalità non basta più. Ora, affinché un sito sia mostrato nelle primissime posizioni dei risultati di ricerca, occorre anche che il suo contenuto comunichi qualcosa di utile: in breve, che sia scritto per un pubblico, non soltanto per il motore di ricerca.
E allora oggi i siti assemblati in catena di montaggio finiscono nel posto che meritano tutti gli accrocchi di testo senza capo né coda: oltre le colonne d’Ercole di pagina tre.

Le content factory e il lavoro del copywriter

Affidare a decine di persone il lavoro di scrittura – in verità poco più che compilazione – è dunque dannoso per il committente. Ma è anche, e soprattutto, umiliante per chi scrive per mestiere. Scrivere contenuti di qualità richiede tempo, cosa che chi vuole tanti testi e sùbito spesso non è disposto ad accordare. E poi richiede anche una giusta remunerazione: un testo ben scritto non si fa senza sforzo, e un compenso di 2 euro l’ora (questa è molte volte l’offerta) è insultante.
Il prodotto delle content farm è quindi, per ovvi motivi, di bassa qualità. Il poveretto che accetta di sfornare ogni giorno quattro o cinque testi da 500 o 600 parole è costretto da scadenze strettissime a inventarsi qualcosa: allora scopiazzerà cambiando qualche frase alla bell’e meglio o tradurrà in qualche maniera un testo dall’inglese. Il testo finito conterrà refusi, frasi lasciate a metà e punteggiatura dubbia; ma non c’è tempo per rileggere, perché l’ora della consegna incombe. Risultato? Un disastro.

I contenuti di qualità secondo Google

Google fornisce una definizione di contenuti di qualità: “siti con contenuto originale e informativo, come ricerche, relazioni approfondite, analisi ben ponderate eccetera”. Questo è il segreto per posizionare un sito nei primi posti. Senza contare che, se un articolo fornisce informazioni preziose, l’utente che lo legge può mettere il sito tra i preferiti o abbonarsi ai feed RSS, fare passaparola, postare l’articolo sul suo sito o condividerlo su Facebook e Twitter. E, se si vende qualcosa, può pure decidere di fare un acquisto. Insomma, teniamolo sempre a mente: la qualità paga.

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